L’Ambasciata del Gusto: un luogo sospeso fra arte, passione e convivialità

Sabato pomeriggio…. qualche ora libera da impegni familiari, lavorativi, due sono le opzioni,  shopping sfrenato, un salto fuori porta per una prima esplorazione dell’Ambasciata del gusto: dico  prima esplorazione perché gli incastri non mi permettono di assistere a nessuno showcooking, cooking class e tanto meno di assaggiare qualche proposta.

L’ex convento dell’Annunciata di Abbiategrasso mi accoglie con i suoi colori caldi, la sua architettura semplice e lineare che si staglia nell’azzurro di un pomeriggio moderatamente caldo.

Entrando nel chiostro l’atmosfera che si respira è di relax, convivialità e quiete. Adoro i chiostri: a differenza di quelli appena visti in Umbria o Toscana, questo mi appare più semplice, lineare, meno decorato, di un’eleganza e rigore che ben si abbinano al suo essere Lombardo. Il duo chiostro-cucina è per me perfetto: due elementi che amo si intersecano.

Tutt’intorno, negli ambienti dell’ex convento, sale con tavoloni con persone che mangiano, una grossa sala dedicata a  showcooking ed affini, la cucina, stanze con esposizione e vendita di prodotti tipici ben esposti ….. tutto molto ordinato, devo dire. Ed è apprezzabile e molto: avendo letto che vi erano prodotti del territorio, temevo l’effetto mercatino di piazza.

Un po’ invidiosa per le persone che hanno appena terminato di pranzare su tavoloni in legno nel prato ed un po’ invidiosa per quegli stessi tavoloni, così perfetti come set per scattare le foto delle ricette, salgo la secondo piano dove c’è la mostra “Gli ambasciatori del gusto” curata da Carlo Cracco e Giovanni Gastel.

Le foto le avevo già viste a casa, girovagando in internet e prendendo qualche informazione sul luogo e mi chiedevo se valesse la pena vederle dal vivo. Si, devo dire di si…. le foto nell’ambiente per cui sono pensate comunicano proprio quello che suppongo volessero: amore per la cucina, dedizione e passione dei giovani chef ritratti per il proprio lavoro, attenzione e rispetto per le materie prime e valorizzazione del territorio.

Le sale non sono molte, 5 direi se non conto male, le foto sono immerse in un ambiente che riprende e rievoca l’atmosfera del casale, con svariati elementi, dettagli e riferimenti ad esso. Faccio tranquillamente in solitaria, una, due, tre… cinque e forse anche sei volte il giro fra queste sale ora cogliendo un dettaglio delle foto o dell’ambiente ora un altro e sempre più la sensazione è quella di quiete ed armonia. La prima foto mi ha divertito da quando l’ho vista sul pc: Cracco e Gastel… identici! Se non fosse per il taglio d’occhi ed una piega del volto lungo la bocca diversi; anche la barba  in effetti … ma lì gioca il colore e… lasciamo il tempo al tempo 🙂

Mi soffermo soprattutto su alcune foto: quella di Paolo Griffa, che mi è troppo simpatico, sarà per la sua faccia da bravo ragazzo, sarà perché ho assistito alla finale della San Pellegrino Young Chef 2015 ad Identità Golose 2015…. .

Poi su quella di Luca Sacchi, addormentato, con il volto sorridente,  su di una zucca: sorrido anch’io … Rappresenterà  la stanchezza della giornata di lavoro da Cracco? Forse si, stando a quello che racconterà  dopo: stanchezza e soddisfazione insieme. Mi piace particolarmente anche la foto di Alba Esteve Ruiz per il suo essere in bianco e nero e per l’armonia delle forme geometriche che  racchiudono l’immagine della chef.

E al termine, prima di tornare nel chiostro, l’ultima foto è la sua, Chef Carlo Cracco in una posa alquanto curiosa. ”A che sta pensando? Che ha visto, Chef?” . Una mia amica, guardando le varie foto che ho scattato, ha detto  “Che ha visto? Forse te che gli chiedi per l’ennesima volta di cedere e concederti una chiacchierata?” E sorrido.

Scendo nel chiostro ed è l’ora del caffè con lo chef: Luca Sacchi si racconta, risponde alle nostre domande. Siamo in pochissimi, cinque o sei più lui, quindi si fa una chiacchierata tranquilla molto conviviale, o meglio da un certo punto in avanti molto in relax … capirete poi.

Luca ci racconta della sua formazione: la scuola alberghiera fatta a Ponte di Legno e di cui apprezza soprattutto l’avergli dato l’impronta del tempo da passare in cucina, il senso dello stare in piedi, della fatica, del lavoro, poi lo stage alla Cassinetta, il lavoro al Cala di Volpe di Porto Cervo in Sardegna che lo ha aiutato a ben comprendere le dinamiche del mondo della ristorazione ad alti livelli ed in ambienti che fanno grandi numeri e via via fino ad arrivare nel 2007 da Cracco.

Gli viene chiesto come nasce un piatto. Al ristorante, dato i ritmi ed il calendario, non c’è tempo per la decisione a tavolino di un nuovo menù, i piatti nascono via via dalla quotidianità. La costruzione di un piatto è qualcosa di conscio e di inconscio insieme: il cervello elabora, probabilmente anche nel tempo e poi c’è quel momento, quell’input che fa si che il piatto prenda forma; quindi lo si prepara per la prima volta, lo si assaggia, lo si modifica in quello che non è perfetto…. Poi ci sono anche i piatti, magari anche eccelsi, che nascono da un momento  e che a volte restano confinati ad esso e che appunto sono dati dalla circostanza stessa, dalle sensazioni ed emozioni ad essa legate, ad un interagire fra individui.

Si chiacchiera di cucina italiana di ora e dei piatti simbolo di Cracco.

La cucina italiana, rispetto al post Marchesi, che ha segnato e significato tutto quello che ha segnato e significato, sta facendo un passo indietro, sta tornando a privilegiare le basi, si sente l’esigenza di saper cucinare gli ingredienti avendone perfetta conoscenza, perché solo da lì anche la creatività ha un senso reale, profondo, che dà spessore e non è fine a ste stessa. Come piatti simbolo cita l’insalata russa caramellata, classica insalata russa preparata a regola d’arte racchiusa in un guscio dolce di zucchero e polvere di capperi: piatto geniale e cerchio perfetto di sapori, dice Sacchi. Cita, poi,  il musetto di maiale fondente con scampi e pomodori verdi. Se questi due piatti sono “storici” nel senso che, ancora proposti, risalgono comunque come nascita a 14 anni fa, il terzo è un piatto nuovo, presentato per la prima volta ad Identità Golose 2015: gamberi in pasta di pistacchio di Bronte con barbabietola in crosta di caffè e sale Maldon, un piatto che Sacchi ama molto perché racchiude tanto dell’Italia e dei suo prodotti, della terra e del mare.

E mentre Luca parla usa il noi e, teneramente ed umilmente, quasi a scusarsi o meglio a chiarire che non è per “super ego”, spiega che usa il noi perché al ristorante sono un gruppo, il lavoro è di squadra, ciò che viene fatto è opera e merito di tutti e che anche lo Chef ( leggasi Cracco) usa sempre il noi in tal senso. Questo uso del noi “corale” da parte di Cracco lo avevo notato ed apprezzato più di una volta.

Si parla del rapporto tv e programmi di cucina: la tv è tv, il lavoro (in cucina) è lavoro (in cucina) . Poche parole, una sintesi perfetta.

Si parla di prodotti e di costi: i prodotti di buona qualità, come lo sono nella cucina del ristorante costano, costano per l’acquisto, per la ricerca che se ne deve fare, ma sono importanti per la qualità, per quello che si offre, per i gusti che si propongono. Purtroppo molto manca l’educazione al gusto, soprattutto nei giovani che ad esempio spesso non hanno mai mangiato un’insalata ed una carota che sanno di insalata e di carota. E con la mente vado alla chiacchierata con Antonia Klugmann con cui parlavamo dell’importanza di educare i bambini ai sapori, ai sapori quelli veri: finché un bambino mangerà i finocchi che sanno della plastica o cartone del loro contenitore, avrà ben ragione di dire che il finocchio  non è buono.

Si son susseguite, poi, a ritmo incalzante una serie di richieste di valutazione di chef, ristoranti ecc. di cui sinceramente non ricordo granché e che hanno costretto il “povero” Sacchi ad uno slalom non poco impegnativo. Una volta che ha lasciato il gruppetto l’interrogatore compulsivo, tirato un sospiro di sollievo da parte di tutti, si è ripartiti a chiacchierare con leggerezza.

Memore del fatto che avevo sentito dire da Cracco che in ristorante non c’è spreco e non capacitandomi di come sia possibile, ho chiesto a Sacchi come questo possa essere. La base di tutto, ha spiegato,  sta nella conoscenza delle tecniche e degli ingredienti, nel saperli utilizzare e reinventare. Lo spreco può nascere da due fattori : il primo è dato dal non utilizzare l’ingrediente nella sua interezza, ad esempio di un gambero non si butta via nulla, si usa la polpa per un piatto, il carapace per altro e della testa si sfrutta tutto perché il cervello può essere utilizzato per una cosa, le guance per un’altra. Le guance?!! Penso io! Mai realizzato che un gambero le avesse: questa conoscenza degli ingredienti, che lascia trapelare  l’amore per essi, mi affascina sempre più. Lo spreco che invece deriva da ciò che della linea non viene utilizzato è sapientemente reinventato per proporre quegli stuzzichini che sono offerti ai clienti prima delle portate richieste. E Sacchi aggancia a questo discorso il tema del valore della ristorazione di qualità come quel qualcosa che sa offrire un di più, sa offrire un prodotto eccellente, di qualità, dai sapori veri ed unici.

Mi vien da chiedergli se non “soffre” il fatto di cucinare piatti pensati da altri, ma ancora Sacchi sottolinea la coralità della preparazione. Cracco e lui si confrontano su di un piatto, Sacchi ne parla con la brigata e ognuno fa il suo, mette del suo: se la creazione non fosse corale il piatto stesso ne risentirebbe, non riuscirebbe a trasmettere quelle emozioni, quella passione che c’è in ognuno che fa la sua parte. E’ un discorso affascinante ma che un po’ faccio fatica a “digerire” sia  a livello cerebrale che emozionale: per me andare a mangiare da qualcuno, è mangiare ciò che quel qualcuno ha pensato in toto e, a fatica, riesco a passare sopra al fatto che non lo ha preparato con le proprie mani, trasmettendo la propria di emozione. Ma d’altra parte capisco e mi stupisco del valore dei grandi chef che sanno trasferire se stessi, la propria impronta attraverso tutta la brigata dove a sua volta, ognun per sé, comunica se stesso: e allora capisco Sacchi che dice che proprio qui sta la differenza, quella differenza che fa sentire le emozioni nei piatti, che fa si che questi dicano qualcosa e non siano soltanto tecnicamente perfetti e buoni nei sapori.

Si parla di passione…. da tutte le parole di Luca traspare la sua passione per ciò che fa e che scandisce la sua giornata e le sue scelte di vita, dalla sveglia alle 7, all’apertura del ristorante alle 8, al termine del lavoro 12-14 ore dopo. Quella passione che sottolinea non è proprio sinonimo di divertimento ma anche di sacrificio, di una fatica che porta ad un risultato splendido.

Da tutto ne esce il quadro, o meglio la foto- visto che siamo in ambiente di mostra fotografica – di un giovane chef motivato, appassionato, semplice, con i piedi ben per terra, per nulla spaventato da lavoro e fatica; un unico neo… alla domanda quali sogni ha, con molta serenità  dice di non averne, che gli va bene quello che fa, non si fa domande sul futuro, non ha grandi tensioni, non sogna, vive il presente per quel che è. I sogni, Luca,  per chi ha comunque i piedi per terra, sono ali per la vita. Ma non per i gusto di arrivare chissà dove nella scalata, ma solo per alimentare il proprio fare e trovare sempre nuova forza ed energia.. E quando i sogni sono alimentati da grandi passioni e tenace costanza, si fanno grandi cose.

E con questa paternale, mi congedo da Luca Sacchi ma non prima di dirgli “Complimenti Chef e complimenti a chi in lei crede”.

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